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domenica 29 marzo 2015

Impariamo a leggere l'etichetta delle uova

Le uova e i ‘misteriosi’ codici sul guscio. A partire dal 2004 è obbligatorio che le uova in commercio presentino sul guscio un codice che riporta informazioni relative all’origine del prodotto. A vederlo il codice è davvero criptico: un esempio può essere “2 IT 027 BS 002”. Cosa stanno a significare queste apparentemente misteriose combinazioni di lettere e numeri? Niente paura: è molto semplice imparare a leggerne il contenuto.



Il codice di tracciabilità o “etichetta” delle uova è un codice complesso stampigliato sul guscio. Ecco come lo si legge e come da esso è possibile ricostruire l’intera storia dell’uovo che stiamo per mangiare.
IL CODICE DI TRACCIABILITÀ DELLE UOVA
Prima cifra
La prima cifra (in questo caso, lo zero) riporta la tipologia di allevamento delle galline:
§  0” sta a significare un allevamento di tipo biologico, ovvero che utilizza mangimi e foraggi provenienti da agricoltura biologica (prodotti senza l’utilizzo di concimi chimici di sintesi e prodotti fitosanitari), integrabili fino al 20% con prodotti tradizionali. Gli animali sono in grado di razzolare liberamente all’aperto: si tratta la tipologia di uova che più si avvicina a quelle prodotte dalle galline “ruspanti” di cascine e fattorie.
§  1” corrisponde all’allevamento all’aperto: gli animali possono girare liberi per una parte della giornata, deponendo le uova nei pagliericci oppure sul terreno loro adibito in un ambiente esterno.
§  2” è il codice relativo all’allevamento a terra: questa tipologia consente all’animale di muoversi libero, non all’aperto bensì in un ambiente chiuso. Un esempio di allevamento da codice “2” è rappresentato dai grandi capannoni che si trovano nelle campagne; le galline depongono le uova per terra, sulla lettiera o nei nidi.
§  3” infine corrisponde all’allevamento a batteria, o in gabbia: gli animali non hanno alcuna libertà di movimento, ma trascorrono la loro vita in gabbie e depongono le uova sul fondo della gabbia stessa. Le densità sono quasi claustrofobiche: in ogni metro quadrato di gabbia possono essere presenti anche 25 animali, ed i posatoi a disposizione per deporre le uova hanno una larghezza di appena 15 centimetri. Possono essere impilati sull’altro sino a 4-6 ordini di gabbie.
Mentre nelle prime tre tipologie è il personale dell’azienda agricola a provvedere alla raccolta manuale delle uova, nell’ultimo caso le uova deposte vengono convogliate ai macchinari di confezionamento mediante un nastro trasportatore che passa al di sotto delle gabbie.

GRUPPO DI LETTERE, CIFRE E LETTERE
La seconda combinazione del codice è composta da due lettere che stanno a contrassegnare il Paese d’origine delle uova: “IT” corrisponde ovviamente all’Italia, “PT” al Portogallo, e così via. La terza parte corrisponde al codice Istat del comunedove è situato l’allevamento, immediatamente seguito dalla sigla dellaprovincia (in questo caso, “BS” = Brescia).

ULTIMO GRUPPO DI CIFRE
Infine, l’ultima serie di cifre è il numero identificativo dell’allevamento di provenienza delle uova: è un codice univoco che permette di risalire immediatamente e senza ambiguità all’esatta azienda agricola di allevamento. Questo è di fondamentale importanza nel malaugurato caso in cui si verificassero problemi di tipo sanitario.

SCADENZA, CATEGORIA E PESO
Sul guscio dell’uovo ma anche sulla confezione esterna, oltre a questo codice alfanumerico, è riportata anche la data di scadenza, la denominazione dell’azienda di origine e/o di imballaggio e la categoria di qualità e di peso delle uova. Esistono infatti diverse categorie di uova:

§  A”: si tratta di uova fresche, che possono essere consumate tal quali senza sottoporle ad alcun trattamento come lavaggi o pulizia. In rari casi le uova possono anche essere state preventivamente lavate, e recheranno la dicitura, appunto, di “uova lavate”. La camera d’aria delle uova appartenenti a questa categoria non deve superare i 6 millimetri di altezza, e di 4 millimetri per quelle “extra”.
§  B”: sono le uova che non ricadono nella categoria “A”: non sono destinate alla grande distribuzione, ma alle industrie di trasformazione (produttori di maionese e prodotti dolciari, pastifici, dove verranno utilizzate previa pastorizzazione) o a quelle non alimentari. Non esiste un obbligo di etichettatura per le uova di questa categoria, ma i lotti devono essere ben distinguibili con etichette o fasce di colore rosso.

Le categorie di peso, invece, sono quattro a seconda delle dimensioni dell’uovo:
§  S”: uova piccole, che pesano meno di 53 grammi
§  M”: uova medie, dal peso di 53-63 grammi
§  L”: uova grandi, dal peso di 63-73 grammi
§  XL”: uova grandissime, che pesano più di 73 grammi


Alcuni produttori forniscono inoltre informazioni aggiuntive riguardanti le date dideposizione, l’eventuale data di imballaggio e la tipologia di alimentazione degli animali. A seconda della tipologia di allevamento deve essere riportato per esteso sulla confezione la dicitura “Uova da agricoltura biologica”, “Uova da allevamento all’aperto”, “Uova da allevamento a terra” oppure “Uova da allevamento in gabbia”. Le uova, inoltre, sono da considerarsi “extra fresche” entro un periodo di nove giorni dalla deposizione e di sette giorni dal confezionamento.
Fonte: http://www.guidaconsumatore.com/consumo_consumatori/leggere-il-codice-di-tracciabilita-delle-uova.html

venerdì 27 marzo 2015

Zucchero bianco? Chiamiamolo chimico ...



Quanti dei consumatori di zucchero bianco sono a conoscenza che stanno mangiando una miscela contenente calce, resine, ammoniaca, acidi vari e "tracce" di barbabietola da zucchero?
Lo zucchero industriale è un prodotto "morto", nocivo al nostro organismo. Questo è dovuto alla sua laboriosa lavorazione, in gran parte voluta per renderlo presentabile agli occhi del consumatore "raffinato".

Si inizia triturando la barbabietola o la canna da zucchero: la sostanza risultante viene poi trattata con calce viva, ovvero viene cotta con latte di calce, nella quale i componenti nobili del vegetale (albumine e minerali) precipitano, distrutti dalla reazione alcalina e dal calore.
Le principali sostanze chimiche utilizzate nella produzione di saccarosio (zucchero) sono la calce viva come depurante e i solfiti come sbiancanti.
L'ultimo processo, la raffinazione, avviene utilizzando acido carbonicoacido solforico ed altre sostanze (carbonato di calcio) non meno dannose, se rimangono anche in parte nello zucchero.
L'utilizzo del blu indantrene, l"E130" è stato vietato nel 1977.


Che cosa potrebbe ulteriormente convincerci a togliere lo zucchero raffinato (zucchero bianco) dalla nostra dieta ?  
Forse sapere che non apporta alcuna vitamina o oligoelemento?
Al contrario, per permetterne il suo assorbimento, l'organismo deve investire buona parte delle sue risorse di vitamina del gruppo B (da ricordare che il crescente aumento delle depressioni e di esaurimenti nervosi è dovuto in gran parte alla carenza di vitamina B1 e B5), oppure sapere che lo zucchero raffinato compie un'azione demineralizzante e decalcificante che favorisce i processi fermentativi con conseguente aumento di flora batterica tossica per l'intestino.
Oppure che è la vera causa dell'incremento dei diabetici nei paesi industrializzati...

Alternative? Lo zucchero di canna integrale poiché non subisce alcun processo di raffinazione. Semplice, no?



http://www.mednat.org/alimentazione/zucchero_danni.htm

Le zone fao della pesca



Cara Giordana,

compri mai del pesce?
Ti interesserebbe sapere da dove arriva, dov'è stato pescato?

Leggi questo bell'articolo (Focus.it) e poi ne riparliamo.



"La legge prevede che sui prodotti ittici confezionati e sfusi debbano comparire tre indicazioni, spiega a Focus.it l'alimentarista Emanuela Bianchi.
  • la denominazione della specie ittica in italiano (per esempio, tonno);
  • il metodo di produzione (pescato o allevato);
  • la provenienza: la nazione per il prodotto allevato, altrimenti il luogo di pesca.

Queste regole valgono per pesci, molluschi e crostacei freschi o congelati, interi o lavorati (trasformati in trance e filetti), ma non per piatti pronti e prodotti inscatolati - per esempio il tonno in scatola.




Mercato ittico all'ingrosso di Trapani: una buona etichetta.
«Su questo tema l'ultima inchiesta di Altroconsumo è del 2011 e aveva mostrato che le etichette sono spesso incomplete nei mercati rionali e dai pescivendoli, più di rado nei supermercati», afferma Bianchi. Nella maggior parte dei casi le omissioni riguardavano il luogo di provenienza e la specifica allevato/pescato.

NOMI INCOMPLETI. Inoltre non sempre il venditore riporta il nome completo della specie venduta, ricavabile dall'elenco stabilito da un decreto legge ad hoc. «Per esempio, la dicitura "tonno"», prosegue, «può riferirsi solo al tipo rosso, altrimenti si dovrebbe specificare pinna gialla, atlantico eccetera. Se un polpo viene dal Messico deve essere aggiunto al nome "messicano": polpo da solo non basta.» Emblematico il caso del persico del Nilo (Lates niloticus), qualche anno fa venduto tout-court come persico.



SOSTITUZIONI. Le frodi rilevate più frequenti? Smeriglio venduto per palombo, pangasio per cernia, eglefino per merluzzo. «Ma non sempre il venditore è responsabile, la frode potrebbe essere dovuta al fornitore», precisa Emanuela Bianchi. In questi casi il consumatore raramente ha modo di difendersi: è difficile risalire la filiera, ma anche riconoscere un filetto da una trancia e persino un pesce decongelato da uno fresco. Non resta che la fiducia nei confronti del venditore.
Per il pesce servito nei ristoranti non vale l'obbligo di indicare la provenienza.
Per venire incontro ai consumatori che attraverso le associazioni chiedono informazioni più dettagliate, l'Unione Europea disponenuove regole in vigore dal 13 dicembre 2014. In etichetta dovranno comparire:
  • il nome commerciale e quello scientifico del pesce (può evitare alcune frodi, come spacciare un pesce per un altro dal nome simile)
  • l'indicazione precisa del luogo di pesca
  • gli attrezzi usati per la cattura
  • l'eventuale scongelamento
Rimane immutata l'attuale dicitura del metodo di produzione (pescato in mare, in acque dolci o allevato).



Attualmente le etichette prevedono l'indicazione del Paese membro o del Paese terzo di origine per i prodotti pescati in acque dolci e per quelli di allevamento. Per il pescato, invece, l'indicazione è in codice, con la facoltà di indicare la zona di cattura con più precisione (per esempio: Mar Tirreno, Zona FAO n. 37). Ecco le corrispondenze (in grassetto la parte obbligatoria):

Zona FAO n. 21, oceano Atlantico nord-occidentale
Zona FAO n. 27; 27.III.d, oceano Atlantico nord-orientale e mar Baltico
Zona FAO n. 31, oceano Atlantico centro-occidentale
Zona FAO n. 34, oceano Atlantico centro-orientale
Zona FAO n. 41, oceano Atlantico sud-occidentale
Zona FAO n. 47, oceano Atlantico sud-orientale
Zona FAO n. 37.1; 37.2; 37.3; 37.4, mar Mediterraneo e mar Nero
Zona FAO n. 51; 57, oceano Indiano
Zona FAO n. 61; 67; 71; 77; 81; 87, oceano Pacifico
Zona FAO n. 48; 58; 88, oceano Antartico"

Appunto: zone Fao. Nella cartina che apre questo post sono ben evidenziate le zone di pesca. E' diventata ormai una mia abitudine quella di leggere, in pescheria, la zona da cui arriva il pesce. La zona 61, ad esempio, possiamo serenamente evitarla, trovandosi proprio nella zona nipponica (Fukushima ....).
Un discorso a parte meriterebbe il Mediterraneo poiché recenti studi lo indicano tra i mari più inquinati al mondo ....  Tara Expeditions è un’associazione che ha studiato l’impatto delle plastiche nel Mediterraneo, mare con una delle più alte concentrazioni di plastica al mondo. Le balene del Mediterraneo sono le più contaminate nel mondo: 4-5 volte superiori rispetto a quello di altre aree.

Per approfondimenti: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-d40b67a1-d0c8-4d61-9dc4-c8b582ccdc3d.html






sabato 21 marzo 2015

Olio di palma

Mi rivolgo a te, Agata.
Prova ad andare in un supermercato qualsiasi a comprare dei biscotti o un dolce o una cioccolata spalmabile: l'impresa di trovarli senza la presenza, tra gli ingredienti, dell'olio di palma sarà quantomeno ardua.
Mi chiederai, Jennifer, come mai ti parlo dell'olio di palma. Ma guarda, per una ragione semplice: perché forse non lo conosci.
Cos'è, dunque, l'olio di palma e, soprattutto, è dannoso per la salute?
Potremmo cominciare dicendo che esistono tre tipologie di olio di palma con differenze significative: l’olio di palma grezzo, l’olio palmisto e l’olio di palma raffinato.
L’olio di palma grezzo è estratto dai frutti della pianta e si presenta in natura solido per l’alta percentuale di grassi saturi. E' ricco di antiossidanti ed è di colore rossastro. L’olio palmisto viene estratto, invece, dai semi del frutto ed è di colore bianco. L'olio raffinato o bifrazionato si presenta di colore giallo ed è il risultato di un'estrazione industriale atta a renderlo fluido come un olio "classico": A causa della raffinazione, però, è privo di antiossidanti ed è dunque una vera e propria "bomba" di grassi nocivi ovvero quelli saturi. E' questo l'olio largamente utilizzato dall’industria alimentare e dalla ristorazione.


Cosa sono i grassi saturi:
Gli acidi grassi vengono distinti in saturi, presenti prevalentemente nei grassi di origine animale (burro, lardo, strutto, OLIO DI PALMA, ecc.), insaturi e polinsaturi, contenuti soprattutto in quelli vegetali (olio di oliva, di soia, di girasole ecc.). I medici e gli esperti di alimentazione consigliano una dieta con prevalenza di grassi insaturi e polinsaturi, perché più leggera e più digeribile. Infatti la catena chimica di acidi grassi insaturi (di atomi di carbonio) è caratterizzata da un doppio legame, più difficile da aggredire dal nostro metabolismo, rispetto a catene che non presentano questa caratteristica. 
Su tali premesse si fondano i consigli per una sana e corretta alimentazione, secondo i quali non più del 10% delle calorie quotidiane dovrebbe derivare dagli acidi grassi saturi. Se ad esempio prendiamo una dieta da 2000 KCal al giorno, questa non dovrebbe apportarne più di 15 - 22 grammi.
Ecco perché è bene parlare di olio di palma, cara la mia Ortensia: senza neanche rendertene conto, quotidianamente corri il rischio di assumere molti grassi saturi (pensa ai biscotti, al cornetto, al pane, ecc ecc). E' come se mangiassi tutti i giorni carne rossa con tutte le conseguenze ormai ben note in materia di salute.


Ma perché viene utilizzato l'olio di palma?
Le ragione principale dell’utilizzo dell’olio di palma nasce dalla composizione chimica che ne fa un grasso capace di resistere alle difficili condizioni ambientali della cottura industriale, all’ossidazione dovuta a immagazzinamento, al calore prolungato e alla conservazione all’aria in scatole non a perfetta tenuta (dadi per brodo, biscotti ecc.). Vi è dunque, sin dagli anni '70, una ragione economica dovuta alla riduzione dei costi di produzione degli imballaggi poiché i prodotti più morbidi e con farciture richiedevano infatti un imballaggio molto costoso. 
Con l'utilizzo dell'olio di palma, dunque, i prodotti sono diventati più stabili. Diversamente i ristoratori lo preferiscono poiché raggiunge più lentamente il punto di fumo e quindi il più idoneo alla cottura dei cibi e per il basso costo. 

I rischi:

L’olio di palma conta ben 884 kcal per 100 ml così come l’olio d’oliva ma con una percentuale di grassi saturi di gran lunga superiore, ovvero di quei grassi ufficialmente riconosciuti rischiosi per l’apparato cardiovascolare. La stessa industria limita l’utilizzo dell’olio di palma per la presenza di una sostanza tossica, l’acido erucico. Sebbene l’industria replichi dicendo che non tutti i grassi saturi sono uguali ed esistano i saturi pessimi, quelli mediocri e quelli addirittura buoni, cioè protettivi, rimane indiscutibile che il prodotto in commercio più diffuso in assoluto è l’olio di palma raffinato che presenta dei parametri analitici nella maggior parte dei casi pessimi e costituisce un inutile surplus di grassi nocivi che è preferibile evitare.


Per concludere:

Come sempre, in materia di cibo, ci si trova di fronte ad alcune scelte: dal mio punto di vista è preferibile limitare l'acquisto di questi prodotti e, nel caso dell'olio di palma, porsi anche una ragione etica riguardante i danni derivanti dal disboscamento di queste piante, con effetti devastanti su molte specie di animali. In più, si tratta di un prodotto raffinato e dunque non più naturale. Sostituirlo con dell'olio di oliva parrebbe essere cosa buona e giusta.